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Neobriganti: La vera storia di Salvatore Giuliano.
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UN FINANZIAMENTO DELLA MASSONERIA BRITANNICA DIETRO L'AVVENTURA DEI MILLE
Tre milioni di franchi donati dalla massoneria inglese consentirono l'acquisto dei fucili a Quarto.
L'appoggio non fu solo economico: il mito dell'«eroe dei due mondi» fu costruito per screditare il Papato.
La conquista degli Stati che componevano la Penisola italiana e, in particolare, del ricco Regno delle Due Sicilie da parte dei Savoia non fu solo dettata dall'esigenza di rientrare dall'esposizione nei confronti di Banque Rothschild che aveva già investito parecchio nelle avventure belliche piemontesi.
Nella spedizione dei Mille il ruolo della massoneria inglese fu determinante con un finanziamento di tre milioni di franchi ed il monitoraggio costante dell'impresa.
A rivelare il particolare non trascurabile è stata la Massoneria di rito scozzese, dell'Obbedienza di Piazza del Gesù, che ha ricordato la data di nascita (4 luglio 1807) del nizzardo Garibaldi in una conferenza stampa ed un convegno alla presenza del Gran Maestro Luigi Pruneti e del Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, Pierre Lambicchi.
«Il finanziamento - ha detto il professor Aldo Mola, docente di storia contemporanea all'Università di Milano e storico della massoneria e del Risorgimento - proveniva da un fondo di presbiteriani scozzesi e gli fu erogato con l'impegno di non fermarsi a Napoli, ma di arrivare a Roma per eliminare lo Stato pontificio».
Tutta la spedizione garibaldina, ha aggiunto il professor Mola, «fu monitorata dalla massoneria britannica che aveva l'obbiettivo storico di eliminare il potere temporale dei Papi ed anche gli Stati Uniti, che non avevano rapporti diplomatici con il Vaticano, diedero il loro sostegno».
I fondi della massoneria inglese, secondo lo storico, servirono a Garibaldi per acquistare a Genova i fucili di precisione, senza i quali non avrebbe potuto affrontare l'esercito borbonico, «che non era l'esercito di Pulcinella, ma un'armata ben organizzata».
Senza quei fucili, Garibaldi avrebbe fatto la fine di Carlo Pisacane e dei fratelli Bandiera, i rivoltosi che la monarchia napoletana giustiziò nella prima metà dell'Ottocento. «La sua appartenenza alla massoneria - ha sottolineato Mola - garantì a Garibaldi l'appoggio della stampa internazionale, soprattutto quella inglese, che mise al suo fianco diversi corrispondenti, contribuendo a crearne il mito, e di scrittori come Alexandre Dumas, che ne esaltarono le gesta».
Al «fratello Garibaldi» ha reso omaggio con un «evviva» il Gran Maestro del Grande Oriente di Francia.
di Gian Maria De Francesco - 04 luglio 2009
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BRIGANTE SE MORE IL CANTO POPOLARE MISTIFICATO DA BENNATO?
BRIGANTE SE MORA IL CANTO POPOLARE MISTIFICATO DA BENNATO?
Da sempre Eugenio Bennato sostiene di aver scritto insieme a Carlo D'Angiò “Brigante se More" compiacendosi, a detta sua, che la gente creda che sia un canto popolare della tradizione.
Il dilemma sembra risolversi, nel libro: "Briganti e partigiani" - a cura di: Barone, Ciano, Pagano, Romano - Edizione Campania Bella, che riporta il testo e che accrediterebbe questo canto alla tradizione lucana, cui titolo originale è “Libertà” e si differenzierebbe da quello di Bennato per due particolari, alla seconda ed ultima strofa, dove al posto di «E mò cantamme sta nova canzona, / tutta la gente se l'adda 'mparà, / nuie cumbattimmo p' 'o rre burbone / e 'a terra nosta nun s'adda tuccà! » e « Ommo se nasce, brigante se more, /ma fino all'ultimo avimma sparà, / e si murimme menate nu sciore / e na preghiera pe' sta libertà! » sarebbero state sostituite con le più strumentali: «E mo cantam' 'sta nova canzone / tutta la gente se l'ha da 'mparà / nun ce ne fott' do' re burbone / a terra è a nosta e nun s'ha da tuccà / a terra è a nosta e nun s'ha da tuccà» e «Omm' s' nasc' brigant' s' mor' / ma fin' all'utm' avimm' a sparà / e se murim' menat' nu fior' / e 'na bestemmia pe' 'sta libertà / e 'na bestemmia pe' 'sta libertà».
Del tutto plausibile per alcuni motivi:- Come fa notare il forum “pizzica” (che ha trattato l'argomento): «...non credo che il testo sia stato scritto da Bennato anche perchè, secondo una mia modesta analisi della rima e della prosa, esso si allontana non poco da tutta la sua produzione "poetica". Il testo (formato da quartine dove si alternano endecasillabi e decasillabi (questi ultimi però hanno la stessa funzione degli endecasillabi in quanto l'accento cade sull'ltima sillaba) per questo motivo credo risalga a una tradizione popolare»
- Le modifiche che sostituiscono il sentimento religioso-popolare e pro-borbonico (humus politico-culturale-sentimentale primario dei briganti), con bestemmie e “menefottenze” verso il Re Borbone, sembra fatto ad hoc per un pubblico di sinistra (a cui Bennato si rivolge) reticente a tematiche non in linea con i “valori” giacobini e della rivoluzione francese di cui detta area ideologica è infarcita.
- Molti anziani di Calabria e Lucania ricordano la canzone cantata nelle ballate di paese, tramandata da cantastorie e canticchiata dai padri, precedentemente agli anni settanta.
Cosa dire, prima o poi la verità esce a galla (quella documentata), così fosse Eugenio Bennato ne uscirebbe con una brutta figura... vedremo.
NEOBRIGANTI
Risorgimento: la pagina nera della "Unità d'Italia"
da: www.cuibevitapalermo.blogspot.com
Risorgimento: la pagina nera della "Unità d'Italia". A sud il popolo subisce una feroce repressione.
LE CIFRE DI UNA TRAGEDIA
-”Cercheremo di vincere gli ostacoli con le buone, -tuonava Cavour in Parlamento- se ciò non giova li vinceremo con mezzi estremi. (...) Finché avremo un voto di maggioranza ed un battaglione non cederemo un palmo”-. I generali che si succedettero al comando delle truppe, i vari Pallavicini, Pinelli, Cialdini, Govone, eseguirono con zelo: decretarono lo stato di guerra nelle province infestate dai briganti. Nel 1861, nel pieno vigore delle sommosse popolari appoggiate dalla Chiesa e dai Borboni, il Gen. Enrico della Rocca consigliò -”che non si perdesse tempo a fare prigionieri!”-; così negli anni successivi, fu la caccia all’uomo, il massacro indiscriminato. Nessuno è stato mai sollecito a divulgare la verità sull’operato dell’esercito durante la repressione del brigantaggio. I parlamentari che insistentemente chiedevano ragione al governo, oscillavano essi stessi tra la reticenza e la vergogna.
E’ chiaro che la tendenza dei quadri dell’esercito fosse quella di vedere anche nella popolazione inerme un potenziale nemico, fiancheggiatrice di briganti, depravata essa stessa. Ecco come un ufficiale vede le genti del sud: -”...qui siamo tra una popolazione che, sebbene in Italia e nata Italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, (...) epperciò non è d’uopo parlar qui di cose che non sono nemmeno accessibili alla loro intelligenza. Qui dunque (...) odio e livore, libidine di potere e di vendetta, qui invidia, qui tutte le più basse e vili passioni, tutti i vizi i più ributtanti, tutte le più nefande nequizie dell’umana natura.”- In quanto alla truppa, proiettata improvvisamente lontana da casa, tra popolazioni ostili e territori aspri e sconosciuti, gravata essa stessa da disagi e fatiche, reagì a situazioni complesse di cui non capiva il senso, nell’unico modo che conosceva: con ferocia inumana. -”Abitanti dell’Abruzzo Ulteriore -scriveva il Generale Pinelli pochi giorni dopo l’incontro di Teano, in un manifesto affisso sui muri dei paesi della Marsica- ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti. Quattro facinorosi sono già stati passati per le armi: il loro destino vi serva da esempio, perché io sarò inesorabile”-
Fu una serie infinita di ritorsioni a catena che a sangue chiamava altro sangue. Ancora oggi, a Sulmona, sotto il sesto arco dell’acquedotto medievale, si può notare il gancio dove veniva appesa una gabbia con i resti esanimi dei briganti catturati. Ma ovunque in tutte le provincie dell’ex Regno di Napoli i cadaveri dei briganti venivano lasciati marcire per giorni e giorni, a volte smembrati e sanguinanti, come monito alla popolazione.
Delle perdite ingenti da parte dell’esercito, poco si è saputo, ma basti pensare che migliaia di soldati morirono soprattutto per patologie legate alle cattive condizioni igienico-sanitarie, al clima e al forte stress cui erano sottoposti; malaria, tifo e varie malattie infettive mieterono numerose vittime. Secondo le fonti del Ministero della Guerra, nel solo periodo che va dall’ottobre 1863 al settembre 1864 si ebbero 47.510 ricoveri in ospedale, di cui 1.178 decessi per sole febbri. Per quanto riguarda le vittime nelle operazioni di guerra, in 22 mesi dal 1861 al 1863 vengono dichiarati 315 morti tra truppa e ufficiali, 80 feriti e 24 prigionieri. E’ importante confrontare queste cifre con le perdite subite nello stesso periodo dalle bande brigantesche NELLA SOLA BASILICATA: fucilati 1.038 briganti, 2.413 “uccisi in combattimento” e 2.678 caduti prigionieri.
Un dato molto interessante infine, mai confermato ufficialmente, è quello riguardante le diserzioni frequenti, di chi preferì lasciare i ranghi dell’armata sarda per entrare in quelli delle bande brigantesche. Quello degli sbandati e dei renitenti alla leva, che nei primi anni ‘60 raggiungeva cifre esorbitanti, fu il vero cruccio del nuovo governo. La leva militare obbligatoria imposta all’indomani dell’unificazione era per le famiglie contadine (già gravate da tributi, come la tassa sul macinato) un’ulteriore aggravio al già precario tenore di vita, portando lontano da casa braccia abili al lavoro e quindi fonte di reddito. Per sfuggire alla coscrizione i giovani si davano alla macchia, andando ad ingrossare le fila degli sbandati del disciolto esercito borbonico. Circa 70.000 soldati caduti prigionieri dopo la presa di Gaeta, furono buttati allo sbando. Rinviati a casa laceri ed affamati costituirono in breve nei paesi d’origine un ennesimo problema: un “esercito di bocche da sfamare”. Per sopravvivere furono costretti ad imparare uno dei mestieri più antichi del mondo: quello del ladro. A questa fiumana di sbandati vanno aggiunti inoltre più di 20.000 giovani volontari dell’esercito garibaldino; anch’essi liquidati in fretta e furia da Vittorio Emanuele, dopo che ebbero rischiato la vita per conquistare il Regno delle due Sicilie. Tutti andarono ad accrescere il numero già alto degli operai senza lavoro.
Queste alcune cifre scarne che i governi post-unitari si affrettarono a cancellare dalle cronache, seppellendo frettolosamente i documenti ufficiali tra la polvere degli archivi dei tribunali, delle prefetture e soprattutto dello Stato Maggiore dell’Esercito. Cifre queste, sicuramente parziali ed espresse per difetto, che non rendono appieno l’idea delle vicende che sconvolsero la vita civile del nostro paese all’indomani dell’annessione del Regno di Napoli al nuovo stato unitario, né tantomeno rendono giustizia alla verità storica. Una vera e propria guerra civile dunque, quella che dal 1860 al 1870 impegnò quasi metà dell’intero esercito sabaudo e dove la repressione prese ben presto le sembianze di una delle operazioni militari più lunghe, estenuanti e sanguinose di tutto il Risorgimento italiano. Ma Torino, allora capitale (Firenze lo diventerà nel 1865), era lontana e qualcuno in fondo sperava che la eco di questa carneficina non arrivasse fin li, che il silenzio stemperasse il clamore di ciò che qualcuno si ostinava a considerare semplice recrudescenza del banditismo, ma che il governo, visto gli scarsi risultati dell’intervento armato, per battere fu costretto a promulgare alla fine del 1863 una vera e propria legge di guerra, la Legge Pica che, ironia della sorte, venne promossa proprio da un parlamentare del Sud, appunto Giuseppe Pica dell’Aquila. Fu la carta bianca che permise alle truppe piemontesi e alle milizie volontarie di condurre una vera e propria caccia all’uomo e di infierire sui simpatizzanti, sui familiari e sulle popolazioni in generale.
Tanto o niente si è scritto su questi dieci anni di cronaca italiana, a seconda di come si consideri la faccenda; ma spesso lo si è fatto travisando gli avvenimenti, rispetto a quanto emerge dagli atti di archivio o ignorandoli del tutto sui libri di scuola. Questi dieci lunghi anni spesso sono stati cancellati tout court, come a voler disconoscere quel profondo malessere e quella tremenda sofferenza in cui versavano le masse popolari del meridione; un rigetto a considerare quell’embrione di lotta di classe che avrebbe rappresentato il fulcro degli avvenimenti italiani e non solo, nel primo scorcio del ventesimo secolo. Ancora oggi, dopo una parziale riabilitazione delle “ragioni” popolari e della figura del “brigante”, ad opera di una storiografia più illuminata e obiettiva, vedono la luce opere tendenziose e anacronistiche, a cui piace anteporre alle disastrose condizioni sociali ed economiche dell’epoca, la sola cosiddetta “ragion di stato”. Daltronde dietro gli impulsi di fumoso patriottismo, ipocrita moralità civica e virilità militaresca, che contraddistinguono e infarciscono abbondantemente questi testi, si è pronti sempre a nascondere le stragi, i saccheggi, le brutalità, troppe volte perpetrate con crudeltà e senza discernimento alcuno, da un esercito in fondo sceso in queste terre come i precedenti: la mano forte cioè, di uno stato estraneo e lontano, di cui il popolo nulla conosce, impositore solo di leggi e gabelle come sempre esose e insostenibili.
I governi che hanno assistito alla recrudescenza del brigantaggio -per certi versi endemico-, hanno reagito forse legittimamente al sommovimento sociale, ma con uguale ferocia e brutalità; accomunando insieme sotto il termine spregevole di “brigante”, ufficiali borbonici, ex garibaldini, renitenti alla leva, ma anche legittimisti francesi, spagnoli, tedeschi, manutengoli, criminali comuni e soprattutto braccianti e contadini.
(http://gguzzardi.interfree.it/briganti_2.htm)
Donne e rivoluzione: l'altro volto del brigantaggio
(da: http://www.noidonne.org/blog.php?ID=01618)
Numerosi sono i profili delle donne briganti, nonostante il ritardo degli storici a considerarne attivamente il ruolo. Inoltre, soltanto di recente l’indagine ha alleggerito gli accenti mitici della narrazione nei resoconti biografici a vantaggio di letture oggettive relative a cronache dell’epoca e agli atti dei processi. Ripercorrendo a grandi linee la storiografia sull’argomento, il primo lavoro organico sulla presenza della donna nel brigantaggio si deve a Jacopo Gelli (Banditi, briganti e brigantesse dell’Ottocento, 1931), che imposta l’opera secondo una visione fortemente conservatrice in linea con le interpretazioni della prima metà del Novecento: le donne briganti sono categoricamente “drude” al servizio di delinquenti, assassine e “virago della malavita macchiaiuola”. La situazione rimane inalterata negli sporadici tentativi di riportare storie di brigantesse, fino alle soglie degli anni settanta del Novecento con il più noto volume sull’argomento, Le brigantesse di Franca Maria Trapani. La sua ricostruzione, per alcuni versi ancora legata ad elementi leggendari, rappresenta una svolta nell’approccio al fenomeno, nell’intento di considerare figure come Maria Rosa Martinelli, Filomena Cianciarullo, Filomena Pennacchio, Maria Oliverio, Serafina Ciminelli, ecc., donne autonome e “psicologicamente” indipendenti nei comportamenti e negli intenti, nel complesso “una prima ribellione femminile allo stato di soggezione atavico e tradizionale delle donne nelle province del Mezzogiorno”. Ad oggi la ricerca si arricchisce di nuovi volti e storie, ad opera di autori come Maurizio Restivo e Valentino Romano, dove la ricostruzione oggettiva prende il sopravvento sugli elementi popolari della narrazione.
Grazie a questa tendenza di studi, è stato possibile evidenziare un dato di fatto: la massiccia presenza delle donne al processo di ribellione del Mezzogiorno subito dopo l’Unità. Il brigantaggio fu un crogiolo di motivazioni diverse, per questo è ancora più difficile definire quanta coscienza legittimista abbia potuto animare il fenomeno delle donne briganti. Sicuramente la presenza della brigantessa ribalta il ruolo stereotipato della tradizione femminile del Mezzogiorno e, conoscere i loro ritratti sul piano storico, grazie al recupero di cronaca e atti di processi, ci informa della profonda determinazione e del coraggio insoliti agli occhi dei moderni di cui furono capaci, fautrici di azioni illecite e particolarmente violente, atti estremi di efferatezza, affermazione identitaria e ribellione, ora contro i soprusi baronali, ora contro la Guardia Nazionale, contro il proprio coniuge, o familiari, se necessario, fino a comandare in prima persona una banda, maneggiare armi di taglio e da fuoco, prelevare riscatti; o, più semplicemente, coinvolte nel manutengolismo, nella fitta rete di relazioni clandestine con i parenti datisi alla macchia.
Alcuni ritratti chiariscono le tipologie sopra identificate. Anche se è difficile operare una scelta, ci riferiamo nello specifico ai casi più noti, come quelli di Michelina Di Cesare, Filomena Pennacchio, Maria Oliverio, le cui storie cruenti hanno lasciato un alone mitico presso le popolazioni d’origine, ora “riciclate” nelle canzoni popolari, nei testi dei cantastorie e delle ballate profane, ora ripercorse nell’immaginario di studiosi e letterati romanzando le vicende in drammi e novelle.
Michelina Di Cesare (1841-1868), per esempio, è un’icona del brigantaggio femminile, la più ritratta nei testi sull’argomento, dapprima giovane e bella in abiti tradizionali e con la doppietta, poi fotografata nuda e sfregiata in seguito alla cattura e all’uccisione. Michelina incontra e segue Francesco Guerra, ex sergente dell’esercito borbonico passato alla macchia subito dopo la nascita del Regno. Dalle testimonianze dei processi, è additata più volte come amante, “druda” e braccio destro del Guerra, al quale la donna gli rimarrà fedele fino alla morte, quando entrambi vengono catturati presso il Monte Morrone, sempre nel casertano, e uccisi nell’agguato stesso. «Da qualche tempo – riferisce il rapporto del Comando – si stavano perlustrando quei luoghi accidentati […] quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona. Fu buona la sua ispirazione, perché […] scorse appoggiati ad una di quelle querce due briganti, che protetti un po’ dalla cavità dell’albero […] cercavano ripararsi dalla pioggia. Appena scortili, […] il Capitano […] con un salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo, lo stramazza al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a corpo, finché venne dato ad un soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere. […]. Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed il compagno che con lui s’intratteneva, appena visto l’attacco, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s’imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato. Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina De Cesare druda del Guerra.» (V. Romano, Brigantesse, pp. 100-101). I loro corpi furono esposti il giorno successivo come monito per la popolazione.
Filomena Pennacchio (1841 - ?), secondo la tradizione, esordisce uccidendo il marito, un cancelliere di Foggia, al quale era andata in sposa per risollevare le sorti della famiglia, infilzandolo alla gola con uno spillone. L’omicidio la consegna alla macchia dove si aggrega alle bande locali. Diversi tribunali, tra Potenza, Avellino e Lucera, testimoniano negli atti i numerosi capi d’accusa, dalla grassazione all’estorsione, fino all’omicidio volontario. Amante di Giuseppe Schiavone, fu catturata, pare, in seguito alle gelosie di Rosa Giuliani, precedente compagna del brigante, che denunciò il rifugio della banda. Mentre Schiavone fu condannato a morte, la Pennacchio scontò la pena in carcere, inizialmente stabilita in vent’anni di lavori forzati, poi ridotta. Uscì nel 1872 anche se della sua vita successiva non ci sono notizie.
Anche Maria Oliverio (1841 - ?) si dà alla macchia dopo un omicidio, quello di sua sorella Teresa, ritenuta colpevole di tradimento con suo marito Pietro Monaco, ex sergente borbonico, anch’egli destinato al brigantaggio dopo l’Unità. La donna, vestiti i panni di uomo, si associa alla banda del marito operante in Sila, fino a quando, in seguito ad un attentato in cui Pietro perde la vita, ne assume il comando. Ciccilla, secondo la tradizione, è nota come “la brigantessa delle brigantesse”, l’unica ad essere condannata a morte “mediante fucilazione alla schiena”, dal Tribunale Militare. Condanna che in realtà non sarà eseguita, ma trasformata nel carcere a vita da scontare nella prigione di Finestrelle in Piemonte, triste luogo di destinazione di molti condannati del brigantaggio.
Bibliografia
2 - Storia del brigantaggio dopo l’unità, Feltrinelli, Milano 1966 Monti M.
3 - I briganti italiani, Longanesi, Milano 1959 Piromalli A., Scafoglio D.
4 - Terre e briganti. Il brigantaggio cantato dalle classi subalterne, G. D’Anna, Firenze 1977 Restivo M.
5 - Ritratti di brigantesse. Il dramma della disperazione, Piero Lacaita Editore, Manduria 1997 Romano V.
6 - Brigantesse. Donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870), Controcorrente, Napoli 2007 Sanfilippo M.
7 - Maria Olivares, libretto d'opera su musiche di D. Giannetta, in "Sipario", Milano 2010 Scarpino S.
8 - La guerra cafona. Il brigantaggio meridionale contro lo stato unitario, Boroli, Milano, 2005 Trapani
9 - F.M., Le brigantesse, Canesi, Roma 1968 (06 Marzo 2011)
BRIGANTI NELLA CULTURA POPOLARE
CALABRIA LA VANDEA ITALIANA
A Parigi arrivava al potere Napoleone, esportando la rivoluzione in tutto il vecchio continente, all'arrivo delle truppe francesi, guidate dal generale Championnet, Ferdinando IV fu costretto a trovare rifugio in Sicilia, a Napoli venne proclamata la Repubblica Partenopea (Castel S. Elmo, 22 gennaio 1799).
Le truppe francesi entrarono a Napoli il 23 gennaio, ma avranno vita breve grazie all'eroismo di un cardinale calabrese.
Il cardinale Fabrizio Ruffo (San Lucido, 16 settembre 1744 – Napoli, 13 dicembre 1827 – Illustrazione 4), il 25 gennaio 1799 (giorno dell'insediamento di Ferdinando IV alla corte di Palermo), venne nominato vicario generale del regno.
Con sei persone, il cardinale sbarcò sulle coste calabresi (8 febbraio 1799), nei territori feudo della sua famiglia, sventolando una bandiera bianca, che diventerà il glorioso vessillo dell'Armata Sanfedista.
Il cardinale, incaricato dalla corte di Palermo, predicò l'insurrezione alle popolazioni calabresi, ancora poco contaminate dagli ideali massonici e rivoluzionari francesi: le parrocchie fecero suonare le campane per adunare la gente, la sollevazione diventò popolare, incontenibile.
Partì dall'attuale provincia di Reggio, organizzando meticolosamente la sua macchina bellica, marciavano prepotentemente, ingrossavano le fila con nuovi arruolamenti, espropriò beni come quelli del fratello stesso a Bagnara, teneva infervoranti discorsi, piegava mano a mano i paesi a fede repubblicana, intanto riceveva piccoli aiuti spediti da Messina: come cannoni ed una macchina per stampare proclami; ormai era forte di 17.000 uomini, che divise in due colonne bene armate e bene organizzate.
Arrivò a Crotone dove trovò e sbaragliò l'ultima grande resistenza repubblicana, sostenuta da un contingente di soldati francesi, fu un massacro, infatti il cardinale Ruffo, per evitare ulteriore spargimento di sangue, mandò precedentemente tre suoi parlamentari a trattare con i repubblicani crotonesi che per tutta risposta fecero trucidare i tre parlamentari non preoccupandosi di suscitare una carneficina ai danni della popolazione crotonese.
Il cardinale a malincuore inviò una delle due colonne sulla città, non riuscendo ad impedire i saccheggi e le devastazioni da parte dei suoi uomini, che erano pieni di zelo antifrancese e religioso, specie i briganti del famigerato Panzanera.
I fatti sanguinosi di Crotone costarono al cardinale molte critiche che fecero vacillare il suo esercito, ma, poichè il consenso era ancora forte, riuscì a radunare di nuovo 7.000 uomini marciando alla volta di Napoli: stavano per aggiungersi ad un migliaio di galeotti, fatti sbarcare in Calabria dagli inglesi (in funzione anti francese), questi furono assegnati al comando di un altro brigante, Panedigrano (Nicola Gualtieri), che utilizzò i galeotti inglesi con ferrea disciplina.
Durante il cammino da Crotone a Cassano, l'Armata gonfiò le sue fila arrivando ad oltre 16.000 uomini, composti da ex carcerati, truppe baronali, soldati irregolari, cavalieri, religiosi, contadini ed artiglieri.
L'Armata della Santa Fede raggiunse Napoli il 13 giugno, liberando la Capitale dai francesi nell'ultima battaglia al Ponte della Maddalena; i repubblicani superstiti della furia sanfedista, tentando un'ultima e disperata resistenza, si arroccarono nel Forte di Vigliena, facendosi in fine esplodere per evitare la cattura.
Si chiuse così la breve parentesi della Repubblica Partenopea.
Il cardinale Ruffo, sconfitti i francesi, tentò comunque di salvare i repubblicani napoletani dalle prevedibili repressioni, perché non voleva ulteriore spargimento di sangue, e contro il volere stesso dei Borbone, che da Palermo reclamavano la linea dura, sottoscrivendo un accordo con i comandanti inglesi, russi e polacchi (degli eserciti regolari che avevano partecipato all'assedio); tentò di fare fuggire i repubblicani con le truppe e le navi francesi in ritirata.
Ma, sotto pressione dei Borbone, il trattato non venne accettato dall'ammiraglio inglese Nelson, gli sconfitti andarono incontro al loro destino ed i Borbone tornarono al trono.
Nel 1801 le truppe borboniche, tentarono di raggiungere la Repubblica Cisalpina, ma furono sconfitte a Siena da Gioacchino Murat; seguì l'armistizio di Foligno (18 febbraio 1801) e subito dopo la pace di Firenze, che prevedeva tra l'altro l'amnistia per i repubblicani.
Il Regno rimarrà governato dalla dinastia borbonica fino al 1806, quando le truppe napoleoniche invaderanno Napoli, aprendo così una nuova parentesi francese, di circa dieci anni: il cosiddetto periodo "murattiano".
Alla momentanea ricaduta borbonica, venne nominato re Giuseppe Bonaparte che, dopo la nomina a re di Spagna nel 1808, lasciò il trono al generale francese Gioacchino Murat.
In tutto il periodo, fino alla ricaduta dei francesi, la Calabria si confermò una terra ostile e ribelle, conquistò in tutta Europa notorietà perché ostinatamente antifrancese: tanto da essere paragonata e considerata alla stregua della mitica Vandea (Regione rivoltosa della Francia, che non accettò mai i valori della rivoluzione francese tanto da essere quasi sterminata).
Con forza e volontà inaudita, nell'ultima decade di marzo del 1807 scoppiò la rivolta popolare contro i francesi, partita da Soveria Mannelli, era il 22 marzo, quando venne infastidita una ragazza locale da parte di un soldato francese che comandava il drappello a presidio di Soveria, i compaesani della bella giovane accorsero alle sue grida massacrando il drappello composto da poche unità, l'insurrezione così dilagò in un attimo in tutti i comuni vicini.
I francesi per tutta risposta bruciarono villaggi ed impiccarono i rivoltosi; la repressione non servì a nulla, infatti, il 4 aprile a Maida i Francesi furono sconfitti dai rivoltosi, sostenuti da alcune truppe inglesi.
I francesi abituati a vincere in tutta Europa (con una situazione lontanamente simile alla Calabria solo nella Gallizia), reagirono in maniera molto dura per via degli umilianti colpi ricevuti dal così tenace popolo calabrese.
Il 31 luglio venne proclamato lo stato di guerra nella Calabria, fu avviato un provvedimento formale, a legittimazione delle pesanti e feroci azioni repressive che i Francesi inflissero alle popolazioni della Calabria; si tratta di un provvedimento di legittimazione che ha pochi esempi in tutta la storia.
Nonostante la reazione molto dura la Calabria rimase in guerra fino alla caduta dei francesi.
Il questi anni di governo francese, ben poco fu fatto per la regione, si cercò di abolire la feudalità per decreto (come se bastasse una formalità scritta), molto probabilmente per colpire i nobili calabresi più che per aiutare il popolo.
Si mise mano alla strada principale calabrese che fu costruita dai Borbone (attuale statale 19 – ex strada delle calabrie), fu spostata la capitale della Calabria da Catanzaro a Vibo Valentia (allora Monteleone di Calabria), fatto che portò tuttavia il fiorire di molti mestieri e ripresa economica nella nuova capitale designata.
Ma la guerriglia della “Vandea italiana” continuava incurante di tali ed iniqui provvedimenti.
Arrivano i “cento giorni” e la sconfitta di Napoleone nella battaglia di Waterloo; è il tempo della restaurazione della monarchia, nel meridione d'Italia è quella di Ferdinando IV di Borbone con la soppressione del Regno di Napoli e Regno di Sicilia che erano divisi da due costituzioni diverse: tutto questo voluto dal Congresso di Vienna che durò dall' 1 novembre 1814 all'8 giugno 1815 (curiosità: il congresso di Vienna abolì la tratta degli schiavi).
Gioacchino Murat cercò di ritornare da Rodi Garganico (dove s'era rifugiato) a Napoli con un pugno di fedelissimi per sollevarne la popolazione, ma il destino crudele volle che la sua nave dirottasse, a causa di una tempesta, in quella terra ostile che era la Calabria: fu arrestato e fatto fucilare nel Castello di Pizzo Calabro nell'ottobre del 1815 da un tribunale militare (oggi il castello porta il suo nome).
I titoli: Re Ferdinando IV (per il Regno di Napoli) e re Ferdinando III (per il Regno di Sicilia) diventarono un unico titolo re Ferdinando I, nasceva sotto la sua guida illuminata il Regno delle due Sicilie: era l'8 dicembre del 1816. [...]
http://www.ordinefuturo.info/storia/571-calabria-la-vandea-italiana