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Risorgimento: la pagina nera della "Unità d'Italia". A sud il popolo subisce una feroce repressione.
LE CIFRE DI UNA TRAGEDIA
-”Cercheremo di vincere gli ostacoli con le buone, -tuonava Cavour in Parlamento- se ciò non giova li vinceremo con mezzi estremi. (...) Finché avremo un voto di maggioranza ed un battaglione non cederemo un palmo”-. I generali che si succedettero al comando delle truppe, i vari Pallavicini, Pinelli, Cialdini, Govone, eseguirono con zelo: decretarono lo stato di guerra nelle province infestate dai briganti. Nel 1861, nel pieno vigore delle sommosse popolari appoggiate dalla Chiesa e dai Borboni, il Gen. Enrico della Rocca consigliò -”che non si perdesse tempo a fare prigionieri!”-; così negli anni successivi, fu la caccia all’uomo, il massacro indiscriminato. Nessuno è stato mai sollecito a divulgare la verità sull’operato dell’esercito durante la repressione del brigantaggio. I parlamentari che insistentemente chiedevano ragione al governo, oscillavano essi stessi tra la reticenza e la vergogna.
E’ chiaro che la tendenza dei quadri dell’esercito fosse quella di vedere anche nella popolazione inerme un potenziale nemico, fiancheggiatrice di briganti, depravata essa stessa. Ecco come un ufficiale vede le genti del sud: -”...qui siamo tra una popolazione che, sebbene in Italia e nata Italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa, (...) epperciò non è d’uopo parlar qui di cose che non sono nemmeno accessibili alla loro intelligenza. Qui dunque (...) odio e livore, libidine di potere e di vendetta, qui invidia, qui tutte le più basse e vili passioni, tutti i vizi i più ributtanti, tutte le più nefande nequizie dell’umana natura.”- In quanto alla truppa, proiettata improvvisamente lontana da casa, tra popolazioni ostili e territori aspri e sconosciuti, gravata essa stessa da disagi e fatiche, reagì a situazioni complesse di cui non capiva il senso, nell’unico modo che conosceva: con ferocia inumana. -”Abitanti dell’Abruzzo Ulteriore -scriveva il Generale Pinelli pochi giorni dopo l’incontro di Teano, in un manifesto affisso sui muri dei paesi della Marsica- ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti. Quattro facinorosi sono già stati passati per le armi: il loro destino vi serva da esempio, perché io sarò inesorabile”-
Fu una serie infinita di ritorsioni a catena che a sangue chiamava altro sangue. Ancora oggi, a Sulmona, sotto il sesto arco dell’acquedotto medievale, si può notare il gancio dove veniva appesa una gabbia con i resti esanimi dei briganti catturati. Ma ovunque in tutte le provincie dell’ex Regno di Napoli i cadaveri dei briganti venivano lasciati marcire per giorni e giorni, a volte smembrati e sanguinanti, come monito alla popolazione.
Delle perdite ingenti da parte dell’esercito, poco si è saputo, ma basti pensare che migliaia di soldati morirono soprattutto per patologie legate alle cattive condizioni igienico-sanitarie, al clima e al forte stress cui erano sottoposti; malaria, tifo e varie malattie infettive mieterono numerose vittime. Secondo le fonti del Ministero della Guerra, nel solo periodo che va dall’ottobre 1863 al settembre 1864 si ebbero 47.510 ricoveri in ospedale, di cui 1.178 decessi per sole febbri. Per quanto riguarda le vittime nelle operazioni di guerra, in 22 mesi dal 1861 al 1863 vengono dichiarati 315 morti tra truppa e ufficiali, 80 feriti e 24 prigionieri. E’ importante confrontare queste cifre con le perdite subite nello stesso periodo dalle bande brigantesche NELLA SOLA BASILICATA: fucilati 1.038 briganti, 2.413 “uccisi in combattimento” e 2.678 caduti prigionieri.
Un dato molto interessante infine, mai confermato ufficialmente, è quello riguardante le diserzioni frequenti, di chi preferì lasciare i ranghi dell’armata sarda per entrare in quelli delle bande brigantesche. Quello degli sbandati e dei renitenti alla leva, che nei primi anni ‘60 raggiungeva cifre esorbitanti, fu il vero cruccio del nuovo governo. La leva militare obbligatoria imposta all’indomani dell’unificazione era per le famiglie contadine (già gravate da tributi, come la tassa sul macinato) un’ulteriore aggravio al già precario tenore di vita, portando lontano da casa braccia abili al lavoro e quindi fonte di reddito. Per sfuggire alla coscrizione i giovani si davano alla macchia, andando ad ingrossare le fila degli sbandati del disciolto esercito borbonico. Circa 70.000 soldati caduti prigionieri dopo la presa di Gaeta, furono buttati allo sbando. Rinviati a casa laceri ed affamati costituirono in breve nei paesi d’origine un ennesimo problema: un “esercito di bocche da sfamare”. Per sopravvivere furono costretti ad imparare uno dei mestieri più antichi del mondo: quello del ladro. A questa fiumana di sbandati vanno aggiunti inoltre più di 20.000 giovani volontari dell’esercito garibaldino; anch’essi liquidati in fretta e furia da Vittorio Emanuele, dopo che ebbero rischiato la vita per conquistare il Regno delle due Sicilie. Tutti andarono ad accrescere il numero già alto degli operai senza lavoro.
Queste alcune cifre scarne che i governi post-unitari si affrettarono a cancellare dalle cronache, seppellendo frettolosamente i documenti ufficiali tra la polvere degli archivi dei tribunali, delle prefetture e soprattutto dello Stato Maggiore dell’Esercito. Cifre queste, sicuramente parziali ed espresse per difetto, che non rendono appieno l’idea delle vicende che sconvolsero la vita civile del nostro paese all’indomani dell’annessione del Regno di Napoli al nuovo stato unitario, né tantomeno rendono giustizia alla verità storica. Una vera e propria guerra civile dunque, quella che dal 1860 al 1870 impegnò quasi metà dell’intero esercito sabaudo e dove la repressione prese ben presto le sembianze di una delle operazioni militari più lunghe, estenuanti e sanguinose di tutto il Risorgimento italiano. Ma Torino, allora capitale (Firenze lo diventerà nel 1865), era lontana e qualcuno in fondo sperava che la eco di questa carneficina non arrivasse fin li, che il silenzio stemperasse il clamore di ciò che qualcuno si ostinava a considerare semplice recrudescenza del banditismo, ma che il governo, visto gli scarsi risultati dell’intervento armato, per battere fu costretto a promulgare alla fine del 1863 una vera e propria legge di guerra, la Legge Pica che, ironia della sorte, venne promossa proprio da un parlamentare del Sud, appunto Giuseppe Pica dell’Aquila. Fu la carta bianca che permise alle truppe piemontesi e alle milizie volontarie di condurre una vera e propria caccia all’uomo e di infierire sui simpatizzanti, sui familiari e sulle popolazioni in generale.
Tanto o niente si è scritto su questi dieci anni di cronaca italiana, a seconda di come si consideri la faccenda; ma spesso lo si è fatto travisando gli avvenimenti, rispetto a quanto emerge dagli atti di archivio o ignorandoli del tutto sui libri di scuola. Questi dieci lunghi anni spesso sono stati cancellati tout court, come a voler disconoscere quel profondo malessere e quella tremenda sofferenza in cui versavano le masse popolari del meridione; un rigetto a considerare quell’embrione di lotta di classe che avrebbe rappresentato il fulcro degli avvenimenti italiani e non solo, nel primo scorcio del ventesimo secolo. Ancora oggi, dopo una parziale riabilitazione delle “ragioni” popolari e della figura del “brigante”, ad opera di una storiografia più illuminata e obiettiva, vedono la luce opere tendenziose e anacronistiche, a cui piace anteporre alle disastrose condizioni sociali ed economiche dell’epoca, la sola cosiddetta “ragion di stato”. Daltronde dietro gli impulsi di fumoso patriottismo, ipocrita moralità civica e virilità militaresca, che contraddistinguono e infarciscono abbondantemente questi testi, si è pronti sempre a nascondere le stragi, i saccheggi, le brutalità, troppe volte perpetrate con crudeltà e senza discernimento alcuno, da un esercito in fondo sceso in queste terre come i precedenti: la mano forte cioè, di uno stato estraneo e lontano, di cui il popolo nulla conosce, impositore solo di leggi e gabelle come sempre esose e insostenibili.
I governi che hanno assistito alla recrudescenza del brigantaggio -per certi versi endemico-, hanno reagito forse legittimamente al sommovimento sociale, ma con uguale ferocia e brutalità; accomunando insieme sotto il termine spregevole di “brigante”, ufficiali borbonici, ex garibaldini, renitenti alla leva, ma anche legittimisti francesi, spagnoli, tedeschi, manutengoli, criminali comuni e soprattutto braccianti e contadini.
(http://gguzzardi.interfree.it/briganti_2.htm)
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